pasqualina

Torta pasqualina

Un grande classico della cucina genovese, è una sapiente torta salata d’impareggiabile bontà, con la sua perfetta fusione di aromi, sapori e consistenze. Come nome suggerisce, la tradizione la voleva sulle tavole pasquali. Oggigiorno si mangia 365 giorni all’anno e nella sua versione “da festa”, sicuramente più elaborata (per la questione delle sfoglie, di cui vi parlerò tra un attimo), molti la preparano piuttosto oramai in occasione del Natale.

Oggi prepariamo la nostra torta con uno strato di pasta come base e uno o al massimo due a copertura del ripieno. Sapete quanti erano nella ricetta originale? Ebbene, le massaie impastavano 33 palline, per 13 strati sotto e 20 sopra!!! Naturalmente la pasta veniva tirata non sottile, sottilissima, quasi trasparente, davvero, e comunque non più spessa di un foglio di carta!

E tra un disco di pasta e l’altro era d’obbligo una spennellata d’olio (data con una piuma o un ciuffetto di prezzemolo). L’unica da non ungere con l’olio era l’ultima delle 13 della base, quella sopra cui si adagiava la farcia. Per quanto riguarda gli strati sopra, invece, non solo si spennellavano di olio, ma si cercava di tenerle staccate le une della altre soffiandovi sotto aria. Questa pratica anche rituale è particolarmente importante per quanto riguarda l’ultima sfoglia, prima di chiudere l’orlo, in modo che la torta assuma un bell’aspetto bombato.

I bordi di tutti gli strati dovevano combaciare in modo da poterli poi arrotolare su se stessi e formare così il croccante bordo della torta. Su cui tradizione voleva si incidessero le iniziali del capofamiglia.

Ma su tutto questo, perché proprio 33? Emanuele Rossi, autore di un ricettario della cucina genovese edito nel 1865, lo spiega quale riferimento agli anni del Cristo. Detto questo, il dibattito su quale sia il numero perfetto di sfoglie per la Pasqualina, a Genova non è mai finito…

strangolapreti

Strangolapreti

Gli strangolapreti, proprio come racconta il loro nome, sono un piatto trentino che si diceva tanti anni fa fossero il piatto prediletto dei religiosi nel corso del Concilio di Trento tra il 1545 e il 1563.
Per via della loro grande gola, i preti ne mangiavano fino a…. strangolarsi!
Il piatto è semplice e sostanzioso, si condisce con tanto burro e con la salvia, si arricchiscono con una bella spolverata di parmigiano e si mangiano belli caldi.

mandilli

Mandilli de saea

“Mandilli de Saea” letteralmente dal genovese significa “fazzoletti di seta”, ma si tratta di un gustosissimo primo piatto della tradizione ligure, una lasagna sottile condita con il pesto.
Le lasagne sono rigorosamente di pasta all’uovo, passata e lavorata per essere sottilissima e larga, proprio come un fazzoletto. L’origine del nome è arabo-genovese.
Il pesto che le accompagna è naturalmente fatto col mortaio, come vuole la tradizione.

bostrengo

Bostrengo

Il bostrengo è un dolce regionale molto amato nel periodo natalizio e non solo. Chiamato anche bustrengo è un piatto povero di antica tradizione, utilizza ingredienti semplici ma fa fare il pieno di energia! Lo vediamo nell’interpretazione di Matilde Brandi con lo chef Andrea Cresta.

torta nera

Torta nera

Una torta tipica di una parte dell’Emilia Romagna, in particolare delle province di Modena e di Reggio, dove ogni famiglia ha ovviamente una sua ricetta!

Quella che mi accingo a prepararvi è la Torta nera reggiana, che prevede la frolla e un ricchissimo ripieno.

Il liquore che uso è però il Sassellino di Modena, obbligatorio nella versione modenese di questa torta (di cui vi parlerò a breve). Ora parliamo un po’ di questo liquore: un digestivo ad altissima gradazione alcolica (60°) a base di anice stellato. La sua origine viene fatta risalire all’inizio dell’Ottocento, quando uno speziale svizzero si trasferisce a Sassuolo, un paese in provincia di Modena e inizia a produrre questo liquore con l’anice stellato – pianta proveniente dalla Cina il cui frutto a forma di stella ricorda come aroma l’anice, ma che botanicamente non ha nulla a che vedere con esso. Nel liquore sono presenti anche tante altre spezie, tra cui cumino, finocchio e assenzio.

La variante modenese della torta nera è senza la frolla: una ‘mattonella’ di pura farcia, che Michele Serra descrive così “Si presenta come una piccola zolla di terra, e come una zolla si sbriciola. È un incantevole mistero fatto di mille aromi che confondono il palato in una sinfonia di dolcezze…”. La versione evoluta e ‘brevettata’ di questa versione è la Torta Barozzi, che prende il nome da Jacopo Barozzi (1507/1573), uno dei più grandi architetti dell’Italia centrale della seconda metà del Cinquecento, detto “il Vignola” dal nome della sua città di nascita, Vignola, in provincia di Modena. Un suo concittadino vissuto quattro secoli dopo, il pasticcere Eugenio Gollini, ha messo a punto la ‘ricetta perfetta’ nel 1907, anno in cui Vignola celebrava la ricorrenza del quarto anniversario della nascita del suo illustre cittadino Jacopo Barozzi, appunto. Il pasticcere Gollini la dedica a lui e nel 1948 registra il marchio. Gli ingredienti sono noti e sono di base quelli classici della farcia della torta nera, con in più le arachidi. Ciò che rende davvero speciale questa torta, pare, sono alcuni segreti nella sua lavorazione…

torta di riso

Torta di riso o degli addobbi

Un dolce emiliano molto antico e molto amato, diffuso soprattutto nelle province di Bologna e di Reggio Emilia. I preparava tradizionalmente in occasione della Decennale Eucaristica, festa esclusivamente della città di Bologna, dove è comunemente detta Festa degli Addobbi, ossia la festa solenne della Comunità Parrocchiale al “Corpo di Cristo” nell’Eucarestia. La solennità del Corpus Domini (“Corpo del Signore”) è una festa di precetto, chiude il ciclo delle feste del periodo post Pasqua e celebra il mistero dell’Eucaristia istituita da Gesù nell’Ultima Cena. In questa occasione, fin dal Quattrocento, le finestre delle case bolognesi venivano addobbate con drappi colorati e si usava preparare questa torta di riso da offrire agli ospiti, dato che le case dei parrocchiani erano aperte per l’occasione. Questa festa veniva celebrata ogni 10 anni nelle parrocchie in città, mentre in campagna ogni paese veniva diviso in 4 quartieri e ogni quartiere festeggiava una volta ogni 4 anni, a rotazione.

La torta era ed è rigorosamente tagliata a rombi, o meglio a losanga, una forma simbolica, simbolo dell’energia e del sacro femminile.

Anche se gli ingredienti variano di famiglia in famiglia. Mia nonna che era emiliana usava per esempio la Strega come liquore, mentre a Modena usano il Sassolino, a base di anice stellato, o ancora al posto del liquore di mandorla amara, più difficile da trovare e consumare, molti usano il liquore all’amaretto (ma in tal caso è meglio non aggiungere gli amaretti nell’impasto).

La base è sempre quella: riso e latte. Si tratta dunque di un dolce senza farina e senza lievito, dagli ingredienti sani e il sapore antico.

Che vino è consigliato insieme a questo dessert? Un Sauvignon dei Colli Bolognesi.

nnacatuli

Nnacatuli

Sono dolcetti fritti della tradizione popolare calabrese, tipici in particolare della Locride, l’area della città metropolitana di Reggio Calabria sul versante Ionico della Calabria e l’area grecanica, la confinante punta della punta dello stivale d’Italia, dove si parla ancora il Greco di Calabria. Qui, pur essendo gli ingredienti semplici e la preparazione di per sé non elaborata, viene loro data una forma particolare (di cui poi adesso vi parlo), che richiede una certa abilità manuale, ottenuta attorcigliando un pezzetto di pasta intorno ad un bastoncino, o meglio un fuso, e utilizzando uno strumento detto ‘pettine’ o ‘telaio’, che serve a tenere insieme i ‘nnacatuli e a renderli rugosi per far aderire meglio lo zucchero. Secondo lo studioso Casile, cittadino di Bova, bellissimo borgo di quell’area grecanica, un tempo i ‘nnacatuli  erano dolci nuziali. Erano considerati pure una specie di biglietto da visita e difatti i futuri sposi, andando ad invitare parenti ed amici, portavano in dono a ciascun componente della famiglia una ‘nnacatula. Era un segno beneagurante e il perchè è presto detto. Con la loro forma elissoidale, con una piccola cuna con dentro una spirale riconducibile ad un bambino, la ‘nnacatola è l’augurio per il concepimento di una nuova vita. E l’origine del nome lo conferma: naca dal greco nakè, significa culla. Anche il fuso è riconducibile alla tradizione greco-pagana, giacchè il fuso era l’attributo delle Moire, le tessitrici della vita e il pettine – almeno così si dice da quelle parti- del dio Dioniso, il dio dell’estasi e della liberazione dei sensi.. E il loro uso sembra che avesse il compito di sacralizzare la preparazione. Il che trovo che sia una pratica molto bella, che aggiunge valore al cibo che mangiamo. Nel Cosentino cambia l’impasto, che è ancora più semplice, così come la forma, simile ad un rosone o ad un fiore. Esiste un dolce omonimo, ma senza la prima ‘n, inconfondibilmente calabrese!, che si fa nella vicina isola eoliana di Lipari. Gli ingredienti della pasta sono gli stessi, ma hanno un ripieno di mandorle sbollentate e pestate e acqua di rose e vengono cotti al forno. Nella Sicilia continentale si aggiungono a volte i pistacchi. Io per quanto riguarda la forma mi accontento della versione più semplice: rettangolini. Per quanto riguarda gli ingredienti, io li preparo con la vanillina – e aggiungo anche un po’ di profumo di cannella – ma tradizionalmente vengono invece aromatizzati con l’anice (liquore) .

torta bischeri

Torta coi bischeri

Una torta tipica di Pisa. Iniziamo ‘a bomba’ dal nome: ma cosa sono, o forse chi sono, i bischeri? Sono le chiavi per tirare le corde agli strumenti musicali, quelle che mettono in tensione lo strumento: per affinità di forma, nel volgare (popolare) toscano è il membro maschile. Per estensione, il suo significato comune è quello di sciocco, poco furbo, ingenuo. E che c’entrano i bischeri con la nostra torta? I “bischeri” dai quali la torta prende il nome sono i ripiegamenti di pasta frolla dell’impasto realizzati sul margine esterno della torta, a forma di ‘pirulini’ ritti, che la coronano quasi fossero dei merli. Il termine ha in questo caso valenza scherzosamente fallica.

Gli stessi ripiegamenti di pasta frolla dell’impasto sono detti a Lucca “becchi”. Solo la presenza di questi becchi è elemento comune tra la Torta co’ bischeri pisana e la Torta coi becchi del territorio lucchese, che sono ben diverse: quest’ultima è a base di spinaci e ricotta.

La ricetta di questa specialità risale… al tempo delle fiabe. Pare che una mitica vecchia, una fata o una strega, avesse avuto idea d’inventare una torta che non avesse uguali al mondo… e così è nata la torta coi bischeri.

A livello storico, la sua versione – senza cioccolato, ovviamente, dato che non era ancora arrivato dalle Americhe – risale addirittura all’anno Mille, o al massimo al 1200 D.C. . Queste torte robuste erano un diversivo nei giorni di magro.

A Pontesserchio – paese in provincia di Pisa, patria di questa torta – si prepara in particolare per la festa del paese, che cade il 28 d’aprile, festa del SS. Crocifisso del Miracolo e per questo si chiama anche ‘Torta del 28’. La torta co’ bischeri era appositamente preparata (o è stata creata) per accogliere le centinaia di pellegrini che venivano ogni anno a Pontasserchio per la festa del SS. Crocifisso del Miracolo, che è un’immagine sacra risalente al 1200 situata nella locale Chiesa di san Michele Arcangelo, alla quale si attribuisce un evento miracoloso. Tutt’oggi il 28 aprile se ne preparano quantità incredibili, poiché si usa regalarle ad amici e conoscenti e offrirne in megaporzioni agli ospiti.

Si narra che fu proprio la Torta ‘co bischeri di Pontesserchio a causare quello ‘intasamento di budella’ che per poco non mandò il Romantico poeta Lord Byron all’altro mondo durante il suo soggiorno pisano.

È un Prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT).

fegato aggiadda

Fegato all’aggiadda

Il termine “aggiadda” significa in dialetto agliata. È la versione, tutta genovese, di cucinare in maniera squisita il fegato. In antichità i piatti con l’impiego di aceto e aglio erano molto comuni. Aglio (presenza di antibiotici naturali) e aceto (l’acidità ha azione antibatterica) sono infatti anche due ingredienti della cucina con forti poteri conservanti. Si tratta di un piatto ’fulmineo’, da consumare caldissimo. Nella ricetta antica originale, oltre al fegato – di cui vi ho già parlato, con le sue qualità proteiche – si mette anche un po’ di poppa o milza di vitello. Cos’è la poppa? È la tettina, una frattaglia che deriva proprio dalla ghiandola mammaria della mucca e fa parte del famoso “quinto quarto”, ossia gli ‘scarti’ dell’animale, usati spesso nei piatti della tradizione povera e oggi tornati gourmet. L’aglio è protagonista della cucina ligure ma anche di moltissime ricette tradizionali in tante regioni del Bel Paese, anche nel Sud. In Liguria, ça va sans dire, era rigorosamente pestato nel mortaio. Ma per molti di noi il problema di questa e altre ricette è proprio l’aglio: ed è proprio il suo composto battericida, che ci fa tanto bene alla salute, a essere il ‘puzzone’ della combriccola. Che fare per non appestare chi ci sta vicino? Io ho dei suggerimenti quasi infallibili per voi: mangiate una mela! Questi frutti sono dei veri e propri «de-odoranti» naturali, in grado di regolare gli enzimi dell’aglio all’interno della bocca e scacciare così il fastidioso odore. Non è una mia opinione personale: in realtà è il risultato di uno studio scientifico americano pubblicato nel 2014. E ci sono anche altri cibi che neutralizzano l’odore e il sapore dell’aglio in un batter di ciglia: sono la menta, il succo di limone, il tè verde, il prezzemolo e gli spinaci.

baci di dama

Baci di dama

La storia dei baci di dama ha inizio nell’Ottocento in Piemonte, nella città di Tortona, e venivano cucinati con le nocciole piemontesi, meno costose delle mandorle, ed erano dolcetti da regalare alle persone care.
Nel 1810 il Cavalier Stefano Vercesi cambiò la ricetta e introdusse l’uso delle mandorle, brevettando questi biscotti con il nome di “baci dorati”, per il loro color oro.
L’origine del nome Baci di dama è nato perché i dolci ricordano due labbra nell’atto di dare un bacio.

baccala vicentina

Baccalà alla vicentina

I veneti chiamano baccalà quello che in ogni altro posto si chiama stoccafisso, cioè merluzzo seccato al sole e al vento, senza sale.
Comunque, il merluzzo conservato – sia sotto forma di baccalà o di stoccafisso – costitutiva fino a tutto l’Ottocento una delle principali fonti di proteine, al sud come al nord del nostro paese.
Lo stoccafisso ragno è la migliore qualità che si può trovare in commercio. Proviene dalla Norvegia, dalle isole Lofoten.